La foto dell'esterno del MEA con il ragazzo sull'asino è di Stefano Ferrando, che ringraziamo vivamente. Tutte le altre foto degli esterni e degli interni del MEA (ex scuola - foto da 2 a 7) e di Casa Porcu-Cao (la casa contadina) (foto da 8 a 11) sono di Giuseppe Loche. La foto n. 12 è di Patrizia Garau e ritrae Antonio Porcu, donatore di Casa Porcu-Cao, all'interno della stessa dopo la ristrutturazione.
Nel 2002, su iniziativa di Antonio Porcu, un asunese emigrato, comincia la storia del Museo dell'Emigrazione di Asuni con la donazione di una piccola casa storica da parte dello stesso emigrato al Comune, e con una serie di attività culturali mirate alla creazione di un centro di documentazione dell’emigrazione ed in generale allo studio ed alla divulgazione delle culture migranti.
Si crea in quel periodo ad Asuni, l’incontro di persone che interagiscono con la Onlus Su Disterru. Le connessioni tra il piccolo centro e le varie realtà internazionali con le quali viene in contatto divengono di anno in anno più ricche e complesse, stimolando nuovi dinamismi, creando le basi per l’inserimento di nuove attività ed il terre di confine filmfestival è una di queste.
Il Comune di Asuni accoglierà le proposte e se ne farà promotore e così, intorno al tema delle culture migranti si fa avanti l'idea di restaurare degli edifici per ospitare le iniziative culturali intorno a questo tema. Due contenitori, entrambi in disuso per vicende che hanno a che fare con l'emigrazione, il primo è la vecchia casa contadina dell'emigrato donatore, il secondo una scuola, chiusa per spopolamento.
La casa, seppur modesta, testimonia fortemente l'organizzazione della vita passata: pochi ambienti in successione comunicano col portico e attraverso questo sullo scosceso cortile antistante, al piano superiore dei piccoli vani sotto il tetto in canne.
Il recupero ha mantenuto tutto l'impianto della casa, col suo camino, il suo pozzo, i locali accessori del cortile destinati ai servizi, oggi come allora. Il progetto ha preservato l'architettura storica, liberandola da orpelli e superfetazioni, dotando quei pochi candidi ambienti di un'illuminazione museale e di impiantistica digitale e restituendo spazi allestibili e suggestivi. Il cortile separa la casa dalla strada, col portico, il pozzo, gli anziani alberi da frutta, è ancora un luogo intimo e raccolto che invita al silenzio e alla riflessione sui contenuti documentali che ospita.
La vecchia scuola, per la sua architettura e la sua posizione urbana è invece uno spazio maggiormente vocato per la funzione pubblica, il recupero l'ha interpretata come struttura museale e di ricerca.
Collocato su un ampio terreno sulla strada provinciale per Samugheo, l'edificio del Museo ospitò a partire dagli anni sessanta una scuola materna. Presumibilmente venne realizzato sulla base di un progetto tipo, divulgato dal Genio Civile o dal Ministero della Pubblica Istruzione per la realizzazione di scuole materne con gli stessi standard qualitativi su tutto il territorio nazionale.
Come scuola funzionò per diversi anni, poi a causa del sensibile calo demografico, determinato dal fenomeno migratorio che ha interessato il paese e tutta la Marmilla negli anni sessanta, non vi fu più un numero di bambini tale da giustificare il mantenimento dell’istituto. Venne così chiusa, e le sue strutture abbandonate all’invecchiamento senza manutenzione.
L’edificio originario, con copertura piana, era articolato in cinque grandi vani costituenti le aule didattiche della scuola e dei vani accessori per servizi e uffici.
L’idea generatrice del progetto di ristrutturazione, ha affrontato il problema dello spazio museale illuminato con luce naturale mantenendo inalterata l’impostazione strutturale dell’edificio.
L’obiettivo viene raggiunto attraverso la chiusura della maggior parte delle aperture esistenti e con la creazione di nuovi punti di illuminazione dall’alto. Le esistenti coperture a falda vengono forate in dei particolari punti per permettere l’inserimento di lucernai che garantiscono ai locali una illuminazione naturale. Il volume dell'edifico, composto come una serie di parallelepipedi sfalsati in planimetria, tali da apparire originariamente come una serie di scatole di differente altezza viene esaltato dal progetto annullando l’impatto delle coperture a falda sporgenti dal filo delle facciate e riportandolo alla sua purezza volumetrica. L’aspetto dell’edificio è quindi determinato dalla successione di cinque volumi di diversa massa ed altezza, col lato superiore che marca una pendenza della copertura che contiene il sistema di modulazione della luce solare in ingresso dall’alto.
Viene liberato il maggior numero possibile di pareti interne dalla presenza delle finestre, permettendo al contempo la massima flessibilità di allestimento; il Museo dell'emigrazione nasce come struttura flessibile, in grado di elaborare in maniera multiforme i dati che intende raccogliere nel corso delle sue attività.
Gli spazi sono così suscettibili di essere destinati ad attività espositive come anche di laboratorio, archivio, e spazi di studio e di lavoro.